Non è corretto nascondere il proprio daltonismo

Buongiorno sono la mamma di un bimbo di 4 anni, che nel corso dell’ultima visita oculistica è stato dichiarato daltonico. Io stessa mi ero accorta che mio figlio aveva qualche difficoltà a riconoscere i colori, e le stesse perplessità mi venivano avanzate dalla sua maestra di asilo. Ebbene, programmata la visita oculistica, durante la quale viene confermato il daltonismo, a quanto pare il più grave, il medico non si sofferma più di tanto su spiegazioni di cosa e come vede il piccolo, ma mi viene esplicitamente detto di non dire a NESSUNO che mio figlio è daltonico, che essere daltonico vuol dire subire discriminazioni in parecchi ambienti lavorativi.

In virtù di questo ho letto qualche articolo e sono arrivata alla vostra associazione per chiedere se effettivamente è così? O meglio, è bene non farlo presente? Pensando al futuro temo che questa cosa possa avere conseguenze sul rendimento scolastico, qualora decidessi di non farlo presente alle insegnanti, e ovviamente, guardando ancora più in là, mi spaventa sapere che un eventuale segnalazione gli potrà creare problematiche e limitazioni.

Come consigliate di procedere? E ancora, ho sentito parlare di occhiali correttivi … addirittura di lenti a contatto … esistono veramente? Sono efficaci?

(una mamma che scrive alla nostra associazione)

Il nostro commento

In questa richiesta di aiuto fatta da chi per la prima volta si affaccia al mondo del daltonismo, notiamo la somma di quello che ancora oggi è il sentimento di rifiuto delle discromatopsie da parte del mondo accademico e della società in generale, e la sensazione di abbandono che provano i genitori di fronte ad una mancanza di risposta della società e delle istituzioni.

Primo punto, il medico non si è affatto interessato a spiegare la visione del bambino daltonico, limitandosi alla solita diagnosi fotocopia “è daltonico”, forse lui stesso non si sarà mai interessato in tal senso, perché questo è quello che viene spiegato all’università. Il protocollo si ferma a “visita-diagnosi-arrangiati”, e manca la parte fondamentale della spiegazione e del coordinamento con uno psicologo di supporto per i primi momenti di confronto, specialmente dei genitori, con la società.

Secondo punto: il consiglio, sempre del medico, di nascondere la propria identità di daltonico è probabilmente una conseguenza dell’analisi della vita di tante persone daltoniche che si saranno rivolte al suo esame per verificare la possibilità di fare un ricorso per un concorso, per un licenziamento, per una abilitazione professionale. Si legge una resa senza condizioni, aggravata dalla posizione del professionista, che potrebbe invece fare leva sul proprio ordine professionale perché qualcosa cambi. La soluzione proposta di tentare di affrontare “in incognito” la vita è quindi un’altra volta un errore, in quanto i test cui veniamo sottoposti non lasciano scampo, oggi le norme lasciano scarsa possibilità al medico di dare una valutazione “in scienza e coscienza”, ci sono i numeri che obbligano alla diagnosi spesso infausta per l’esaminato.

Terzo punto: non parlarne a scuola. Invece, con le maestre, si dice e si deve pretendere soluzioni. E si deve anche pretendere che il direttore scolastico proponga corsi di aggiornamento su questo argomento. Cominciare a nascondersi già dalla scuola significa segnare per sempre il comportamento dell’adulto, che sarà relegato ad un modo “di retrovia”, senza la coscienza di poter cambiare qualcosa. Un po’ come il medico che appare arreso a questa condizione.

Quarto punto: gli occhiali. Ossia, affidarsi alla promessa di uno strumento che possa correggere la visione per adattarla alle cose, quando basterebbe un po’ di attenzione nell’uso dei colori per rendere il mondo utilizzabile per tutti. Senza contare che queste correzioni di fatto o non funzionano affatto o sono solo dei palliativi, anche perché il loro uso non è riconosciuto in ambiti lavorativi.

La Associazione nazionale “Come vedono i daltonici” è nata proprio con questo scopo: liberare i daltonici dalla propria condizione di dipendenza dal parere sbagliato e superficiale dei medici (che non sono esperti di percezione) e liberare finalmente le capacità nascoste di chi vede meno colori.

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